Recensito in Italia il 15 giugno 2020
Solitamente non do mai una stellina nelle mie recensioni, neppure ai libri che non mi sono piaciuti affatto. È una sorta di rispetto per chi ha speso ore ed ore a scrivere (il che non è facile), ma anche uno spiraglio che concedo alla possibilità che sia stato io a non aver saputo leggere un determinato testo in un determinato modo (il che non è da escludersi a priori). Nel caso di Febbre, però, proprio non me la sono sentita di dare più di una stella: sarebbe stato quasi immorale. Non che dare una sola, miserrima stella a questo libro non mi costi: un giudizio così severo su un libro autobiografico che parla di sieropositività potrebbe essere fin troppo facilmente scambiato per un giudizio severo nei confronti dell'autore sieropositivo. Però ci ho pensato su un minuto o due, arrivando alla conclusione che, in fin dei conti, lo stesso vale anche per i giudizi esaltanti i quali, vista la natura esplicitamente autobiografica dell'opera, potrebbero essere fin troppo facilmente scambiati per giudizi esaltanti nei confronti dell'autore. Sia che se ne parli bene sia che se ne parli male, dunque, si corre sempre il rischio di parlare d'altro: di parlare della persona che ha scritto il libro, non del libro. Il rischio c'è, ma non significa per questo che non bisogna parlarne affatto, del libro. Semplicemente, chiudendo questo primo preambolo, ci tengo a sottolineare come le mie critiche sono rivolte a Febbre di Jonathan Bazzi, non a Jonathan Bazzi.
Ho scritto 'primo preambolo' perché adesso mi tocca infliggerne un secondo. Siamo a gennaio o febbraio, a Parigi. Un freddo che non dico. La città è paralizzata dalla grève dei mezzi di trasporto: settimane e settimane senza autobus e senza metro. Io, all'epoca, vivevo a Belleville, quartiere cool e fricchettone. Un pomeriggio mi incontro con quel tal mio amico di Milano, che si trovava a passare da Parigi, e ci facciamo un giro sul lungo-Senna. In Italia, pare, si fa un gran parlare di questo Febbre, uno degli "esordi dell'anno". Ma come sarà mai questo libro? Scarico dal cellulare l''anteprima' Kindle e cominciamo a leggere, io e il mio amico, sul lungo-Senna. E per poco non ci buttiamo nella Senna. Leggiamo e ci annoiamo, ci viene il fiato corto per il tedio, rallentiamo il passo. Quello che in molti hanno definito "stile scarno, essenziale e diretto" è, in realtà, una mancanza di stile. Una cosa del tipo: «Sono le otto. Mi sveglio. Sono le otto e un quarto. Mi rigiro nel letto. Otto e mezza. Finalmente, mi alzo. Otto e quarantacinque. Metto su il caffè. Colazione e mal di testa. Le nove. Come passa il tempo». Tutto così. Per pagine e pagine e pagine. Ma a proposito, quante pagine? Leggevo e leggevo, ma questa anteprima Kindle non finiva mai, mai, mai, tanto che avevo persino cominciato a temere di avere effettivamente comprato tutto il libro per sbaglio. In realtà, 'sta anteprima Kindle era praticamente metà del libro. Ed era scritto tutto nello stesso identico modo. Dopo una quarantina di pagine, Jonathan Bazzi era finalmente arrivato a «Mezzogiorno. È ora di uscire», mentre io e il mio amico eravamo arrivati a uno stato di mutismo assoluto, tramutati in due statue di sale dallo sgomento, al punto che sembravamo due gargoyle di Notre Dame. Dopo questa esperienza traumatica con l'anteprima Kindle di Febbre, decisi di non comprare Febbre. Fine del secondo preambolo. Ma la storia, ahimé, continua.
Arrivano i titoli dei semi-finalisti allo Strega. E Febbre è lì. Ma com'è possibile?, mi chiedo. Lo chiedo anche al mio amico di Milano, che dopo mesi deve ancora riprendersi da quella passeggiato sul lungo-Senna. Poi passano altre settimane e, addirittura, Febbre finisce fra i finalisti. Ma insomma, forse sono proprio io che non capisco una mazza di letteratura. Oppure, in quel pomeriggio di gennaio o febbraio, semplicemente ero in uno stato confusionale: la grève, il freddo, i gargoyle, chissà... Ma quindi, lo compro o non lo compro, 'sto libro? Scelgo la via più virtuosa, cioè quella che sta in mezzo: lo prendo a prestito. E per fortuna, perché altrimenti adesso sarei stato qui a piangere quegli eurini che, invece, ho deciso di spendermeli in crêpe e pain au chocolat, alla faccia della dieta e di chi mi vuole male.
Leggo, dunque, Febbre e devo dire che non solo la mia opinione iniziale negativa è stata confermata, ma se possibile è diventata ancora più negativa. Il libro è il memoriale di Jonathan Bazzi, che ci spiega come e quando ha scoperto di essere sieropositivo, più una serie di 'informazioni di contorno' sulla sua famiglia disfunzionale, i suoi primi amori, i suoi problemi con gli studi, eccetera. Il tutto scritto con uno stile (o, come già detto, con una mancanza di stile) da blog o da articolo di rivista on-line. In questo romanzo autobiografico, memoriale, o opera di auto-fiction (etichetta più che abusata in questo caso, visto che l'opera di Bazzi mi pare tutta 'auto' ma senza 'fiction') non c'è assolutamente nient'altro. Nessuna riflessione approfondita. Nessuna sublimazione etica o estetica. Non c'è poesia, perché Bazzi non ha una poetica. Nessuna morale della storia, perché una collezione di didascalie non è nemmeno una storia. Quel che è peggio, ritengo che questo libro sia addirittura 'immorale' per diversi motivi.
Primo: se davvero si vogliono combattere i pregiudizi e la sierofobia, bisogna raccontare storie in cui il sieropositivo non è ridotto alla sua sieropositività. Raccontare cioè le persone, che non sono la loro malattia o il virus che hanno. Bazzi fa tutto il contrario: è lui stesso a ridurre la sua persona alla sua malattia. Bazzi (si) racconta come se non ci fosse nulla, in lui, che vada oltre e al di là della sua sieropositività. Scrive Bazzi:
«Ho l'HIV, sono sieropositivo.
Sono uno di loro.
Non so più chi voglio essere, dicevo ogni volta. Ciclicamente, saranno vent'anni. Non so chi sono, non l'ho mai saputo. Per tutta la vita, finora, ho cercato senza sosta di diventare qualcosa, assumere una forma, incarnarmi: il cantante, il pittore, il giornalista, l'aspirante professore universitario, la filosofia, il kung fu, lo yoga, la letteratura, l'ebraismo, il buddismo, l'animalismo, la chitarra, teoria e solfeggio, il femminismo, la meditazione, la danza classica, l'esoterismo. Vocazioni innumerevoli, durate niente. Magnifico, e poi sempre tutto noioso. Tutte le identità che ho provato ad assumere prima o poi hanno ceduto. Le ho negate, superate, svilite, sono passato in fretta ad altro. Neanche qui, neanche questo - devo essere qualcosa di nuovo.
Ora sono stato accontentato.
Anch'io ho una qualità stabile da esibire al mondo. Di cui non posso sbarazzarmi».
Tralasciandone i giudizi relativi allo spessore letterario (giudizi che sarebbero ripetitivamente negativi), mi chiedo: che messaggio possono portare, simili passaggi? Che spessore può acquisire 'Jonathan Bazzi' (il protagonista del romanzo, non la persona che l'ha scritto) in queste pagine? Che senso ha leggere un romanzo il cui protagonista viene, di fatto, eliminato dall'autore che dice di mettere sé stesso nell'opera, quando in realtà è il primo a sottrarre la sua persona per far spazio al virus che lo definisce?
Ora è vero che, da un lato, e poco più in là, Bazzi (giustamente) osserva che «Il virus dell'HIV appartiene al mondo, soprattutto. Riguarda più voi, che me. È il risultato di una sovrapposizione di sguardi, strato su strato», il che sarebbe come dire: "Non sono io che sto riducendo la mia identità al virus, ma siete voi". Dall'altro lato, però, lui non fa niente per 'far uscire dalla pagina' sé stesso: il suo mondo interiore, il suo punto di vista sul mondo. Chi è il 'Jonathan Bazzi' raccontato in Febbre? Difficile a dirsi, perché il personaggio così piatto e superficiale che molti personaggi di pura finzione sembrano più veri e reali di 'Jonathan Bazzi'. (E non sto parlando di Anna Karenina o di Ivan Karamazov: anche un personaggio qualsiasi di Stephen King è molto più realistico e umano del protagonista di Febbre.)
Non che a Bazzi siano mancate le occasioni per approfondire ed approfondirsi: semplicemente, le ha sprecate. Ci sono, per esempio, delle pagine potenzialmente interessanti in cui si raccontano di certe tensioni e contraddizioni: per esempio, quando il protagonista afferma di innamorarsi di ragazzi bellissimi per i quali non prova attrazione fisica, per poi fare sesso con uomini che, a conti fatti, non gli piacciono nemmeno. Scrive dunque Bazzi: «non posso che innamorarmi di ragazzi - ragazzi, non uomini - malinconici, stropicciati, mezzi barboni ma con gli occhi dolci - falliti? Aspiranti suicidi? Spirito, luce, solo desiderio: non ho mai sognato di scopare con lui. La vita erotica dei santi ha le sue regole». Tema interessante, anche se non eccessivamente originale, ma comunque un'occasione per un minimo di introspezione, un minimo di indagine sulla natura del desiderio e dell'attrazione. Ma niente: si volta pagina e si torna a parlare d'altro, poi d'altro, poi d'altro, ma sono solo chiacchiere ed ornamenti messi lì a decorare il vero protagonista del libro, cioè il virus dell'HIV.
(Che poi, detto fra parentesi, il passo citato assomiglia all'incipit dell'ultimo libo di Aldo Busi, Le Consapevolezze Ultime: «Una delle ultime consapevolezze di cui ho fatto bottino, per magro che sia, è che da ragazzo ero affascinato dagli uomini che non parlano perché avevano tutti la pelle cerulea e luminescente e lo sguardo intenso di chi vuole far capire qualcosa senza dire cosa illudendoti, e secondo me illudendosi, che loro lo sapevano, cosa». Ma mentre nel caso di Busi questa 'consapevolezza' offre il la ad un racconto in cui memoria personale, denuncia socio-politica ed indagine sui valori civili si intrecciano in maniera complessa e quasi acrobatica, nel caso di Bazzi rimangono parole gettate nella mischia. Però si sa che Aldo Busi sta sulle scatole ai lettori italiani: perché è gay ma non è né complessato né malato né innamorato, e perché parla di tutto e non solo dell'essere gay. È quindi un gay 'inaccettabile', proprio perché non è 'soltanto' gay, e non può quindi essere 'perdonato' come, per esempio, Tondelli o Paolini, che in quanto morti, sono stati conseguentemente santificati.)
Secondo motivo per cui Febbre è un libro immorale (collegato al primo): è immorale scrivere un libro che vuol far leva solo e unicamente sulla compassione suscitata nel lettore. Più che immorale, è un trucco vecchio come il cucco, qualcosa di molto cheap. Ok, scrivendo questa recensione starò facendo la parte dell'insensibile, invidioso, 'hater', e chi più ne ha più ne metta. Ci sto. Ma la maggior parte delle persone che parlano bene di questo libro si sono rese conto che, come accennavo sopra, non stanno parlando del libro in sé, ma stanno semplicemente augurando il meglio al suo autore? Spero di sì, ma purtroppo so già che le vie delle dissonanze cognitive sono infinite.
Terzo motivo, che non ha a che fare né col protagonista né coi lettori: il libro è stato immoralmente 'pompato' dalla critica italiana, che l'ha fatto passare per un nuovo capolavoro. Così facendo, a mio avviso, non si fa altro che danneggiare prima di tutto Jonathan Bazzi (l'autore, non il protagonista del libro). Dopo che ha scritto un romanzo come Febbre, in cui ha parlato della sua sieropositività ed ha fatto piangere mezza Italia, cos'altro potrebbe pubblicare, il giovane e sicuramente ambizioso Bazzi? Dovesse cominciare a scrivere sequel su sequel di Febbre, dopo un po' verrebbe a noia. Dovesse decidere di scrivere tutt'altro, il pubblico non glielo perdonerebbe: tutti direbbero che nelle opere successive non riescono a trovare "l'intensità" e "la vita vera" che c'era, invece, in Febbre. Pubblicizzando un libro del genere, il tran tran mediatico minaccia di stroncare una carriera sul nascere (cosa che, comunque, non auguro al volenteroso Jonathan Bazzi).
Il colpo di grazia è stata l'inclusione di Febbre fra i finalisti dello Strega. Ma anche lì: come è potuta succedere, una cosa del genere? Basta fare 2 + 2. Quello di Bazzi è il libro che è passato in finale ricevendo meno voti di tutti. Se quella dello Strega fosse stata una cinquina, come è (quasi) sempre stata, Febbre sarebbe stato "il primo fra gli esclusi". Siccome quest'anno hanno deciso di fare una sestina, Bazzi è diventato "l'ultimo fra gli inclusi". Ora la questione diventa: perché proprio quest'anno hanno deciso di fare una sestina? Da qualche tempo, per regolamento, ci deve essere almeno un libro pubblicato da una casa editrice indipendente fra i finalisti. La giuria aveva fatto la cinquina con Veronesi, che ha pubblicato con La Nave di Teseo, solo che all'ultimo i giurati devono essersi accorti che La Nave di Teseo non può più essere considerata una casa editrice "piccola" e "indipendente", visto che nel frattempo ha comprato la Baldini&Castoldi, la Tartaruga Editrice, Oblomov Edizioni e chissà cos'altro. In pratica, ci vorrebbe molta fantasia per non ammette che anche la Nave di Teseo adesso, è un grosso gruppo editoriale, altro che 'casa editrice piccola e indipendente'. E dunque, una cinquina con Nave di Teseo (Veronesi), Einaudi (Carofiglio e Parrella), Feltrinelli (Ferrari), e Mndadori (Mencarelli) avrebbe trasgredito al regolamento. Era una situazione difficile. Avrebbero potuto togliere uno dei due Einaudi, ma Carofiglio non lo avrebbe accettato e la Parrella, unica donna finalista, era necessaria per la 'quota rosa'. La Mondadori non poteva essere lasciata a bocca asciutta, mentre Veronesi non lo si poteva lasciare senza candidatura. Ferrari è sì un esordiente, ma lavora nel mondo dell'editoria da decenni (era uno degli editor di punta della Mondadori): quindi anche a lui non potevano fare lo sgarbo. Alla fine, per il rotto della cuffia, hanno trasformato la cinquina in una sestina, inserendo Bazzi, che ha pubblicato con la Fandango. Mi domando, dunque: gli hanno fatto veramente un favore, a Bazzi, inserendolo fra i finalisti solo perché serviva qualcuno che avesse pubblicato con una casa editrice indipendente? Secondo me, assolutamente no.
Auguro comunque ogni bene a Jonathan Bazzi, che magari 'sto Strega lo vince pure e buon per lui. Ai lettori italiani, invece, auguro tante buone letture e, soprattutto, discernimento. Io, intanto, me ne torno a passeggiare sul lungo-Senna, adesso che finalmente c'è il sole.