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Le otto montagne

Le otto montagne

daPaolo Cognetti
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Simona Scarioni
5,0 su 5 stelleLe otto montagne (di Cognetti)
Recensito in Italia 🇮🇹 il 18 luglio 2017
Le otto montagne, credo sia stato uno dei libri più discussi di quest’anno – e non solo perchè Paolo Cognetti ha vinto il Premio Strega 2017. L’ho letto a maggio, questo libro, e mi ha lasciato nell’anima una sensazione strana, contesa tra emozioni opposte. Ho preferito procrastinare una recensione su questo libro proprio per questo, anziché darne un giudizio imparziale e istintivo – ho preferito sorvolare anche sull’onda dell’entusiasmo della vittoria dello Strega. Ma ieri sono andata in montagna, sulle mie montagne, e credo sia venuto il momento di dirvi cosa ne penso – non che abbia una qualche rilevanza, si intende.

Il problema di fondo è che non esistono le montagne. O perlomeno: non esiste una definizione unica di montagna. Le montagne sono luoghi di vita o di vacanza, luoghi indifferenti o luoghi che ci restano nel cuore – ma c’è ben poco di razionale in tutto questo. Non esistono le montagne, perché ognuno di noi ha il suo modo di vivere le montagne – un modo unico che difficilmente può essere confinato in una frase, un modo che spesso è complicato condividere anche con le persone che ci sono già vicine.

E giustamente, Cognetti in questo libro parla delle sue montagne, del suo modo di vivere la montagna – e forse in sottofondo ci sembra di sentire una vocina che dice “Vabbè, ma voi che non l’avete vissuta così, cosa ne potete capire?”. Cognetti racconta di un mondo di montagne deserte e di anime solitarie, inerpicato alle pendici del Monte Rosa. Cognetti parla di un’amicizia che dura trent’anni, di una famiglia che si allarga e si spezza mantenendo sempre il legame indissolubile con la montagna. Cognetti ci parla di estate, di mucche, di neve e di baite, e in fondo al cuore ci piacerebbe prendere una macchina e raggiungerlo lì, nei dintorni di Grana, a rincorrere due ragazzini che giocano lungo un torrente.

Ma la montagna, dicevo, è una esperienza personale – e arrivo in fondo al libro pensando che io ho perso tutto il mondo di Cognetti, ma lui ha perso tutto il mio. Perché, in fondo, in quelle montagne solitarie io non mi ci ritrovo: per me la montagna è un mondo di persone, una comunità forte e unita tanto d’estate quanto d’inverno – ed è natura, sì, ma è natura addomesticata e resa accessibile a tutti, un continuum di verdi e azzurri che non viene inframezzato dalle costruzioni delle città. Le mie montagne sono vive, sono un brulicare di gente allegra, sono piene di attività volte a valorizzare il territorio e a far spendere ai turisti quei soldi che sono indispensabili per mandare avanti la baracca e superare l’inverno. Perché la montagna da sola non sta in piedi: serve il turismo, serve l’attività, servono soldi per consentire alla gente di vivere, e di arrivare alla prossima estate. Le montagne, abbandonate a loro stesse, diventano uno spettacolo impervio e inospitale – e l’uomo ne fugge, l’uomo scende in pianura quando non riesce a vivere sulle montagne. E per questo io, abituata a amare quelle montagne probabilmente molto turistiche ma sicuramente vissute e valorizzate, io in questo racconto non mi ci ritrovo.

Dall’altro lato, però, in Cognetti troviamo personaggi descritti con la stessa ruvidezza delle montagne, con se fossero scolpiti in un ghiacciaio e ne emergessero i tratti poco per volta, man mano che la neve si scioglie. In Cognetti troviamo uomini senza padre e padri che non sono mai stati figli; e troviamo figli che fuggono, e che poi si ritrovano sulle orme dei padri. E le donne, sì: le donne funzionano da collante, limano gli spigoli e ammorbidiscono questi uomini ruvidi – sempre per scelta però, mai per sottomissione, e mai sentendosi chiuse in gabbia. In tutto il libro scorre una vena di libertà: nessuno è davvero ingabbiato tra quelle montagne, e chi ci resta lo fa per scelta, lo fa perché isolarsi sulle montagne è il suo modo per cercare la libertà.

Splendida la narrazione, dunque, splendidi i personaggi e lo stile – anche se non parla del mio mondo, anche se queste non sono le mie montagne. Ma andando oltre il racconto in sé, tramite la splendida scrittura di Cognetti possiamo trovare nuove domande, possiamo chiederci se il sentiero tracciato sia quello giusto, e possiamo scegliere quale sia la nostra prossima montagna da scalare. Perché non serve avere un paio di scarponi ai piedi: la montagna è una filosofia di vita, è l’idea che serva fatica per arrivare in cima, ma che poi ne valga la pena.

"Da mio padre avevo imparato, molto tempo dopo avere smesso di seguirlo sui sentieri, che in certe vite esistono montagne a cui non è possibile tornare. Che nelle vite come la mia e la sua non si può tornare alla montagna che sta al centro di tutte le altre, e all’inizio della propria storia. E che non resta che vagare per le otto montagne per chi, come noi, sulla prima e più alta ha perso un amico."
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15 persone l'hanno trovato utile

La recensione più critica

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Mr. Vincenzo Politi
2,0 su 5 stelleBuono per farci una fiction su Rai 2
Recensito in Italia 🇮🇹 il 21 febbraio 2018
Qualche giorno fa, un mio amico mi ha detto di aver letto le prime pagine di "Le Otto Montagne", di Paolo Cognetti. Esprimendo un giudizio sulla qualità della scrittura, il mio amico ha ammesso: "ha una sua dignità". Ho pensato a lungo alle parole di questo mio amico (che poi, "amico" è una parola grossa: diciamo che è un conoscente, anzi, una specie di conoscente, ed è pure mezzo scemo) e, in particolare, mi sono chiesto: "una scrittura con una dignità, che tipo di valore ha?". Il valore di vincere un Premio Strega e di vendere un sacco di copie, cosa che questo libro ha fatto. Né più né meno.

Ho l'impressione, infatti, che "Le Otto Montagne" appartenga a quel genere letterario, che in Italia gode di particolari, strane fortune, descrivibile come "letteratura media, anzi, medio-bassa, anzi, talmente bassa che basta fare un po' di pubblicità e di marketing per farla sembrare poetica e evocativa, quindi altissima e sublime". Una letteratura vuota, che passa per letteratura impegnata. Una letteratura di facile intrattenimento per romanticoni insonni che cercano uno sceneggiato televisivo dentro ogni libro, che passa per letteratura dei sentimenti e dell'animo umano.

Uno dei capostipiti di questo tipo di letteratura è, senza dubbio, "Va' dove ti porta il cuore", di Susanna Tamaro: tradotto in tutte le lingue del mondo, per far sì che la letteratura italiana venga denigrata e presa per i fondelli in tutto il mondo, appunto, rimase in classifica più di due o tre presidenti del consiglio in successione, tutti dicevano che era bello, bellissimo, la Comencini ci fece pure il film, con Virna Lisi e una Margherita Buy "complessa", cioè nevrastenica, sin da allora, e tutti ancora a dire "bellissimo!, bellissimo!". Gli anni però passano, così come le fortune, e pare che tutti i lettori della Tamaro, e la Tamaro stessa, siano andati là dove li aveva portati il cuore e non siano più ritornati. Chi se lo ricorda più, quel libro? Del resto, di cosa parlava? Di una mamma italiana tanta cara e tanto buona che non riusciva più a comunicare con la figlia problematica. O qualcosa del genere. Senza dubbio, qualcosa di genere.

Un esempio più recente, invece, è "La Solitudine dei Numeri Primi", classico romanzetto "young adult", con la storia d'amore scema fra due ragazzi scemi, condito da dubbi simbolismi numerologici che manco la Kabbala, che comunque va di moda, almeno fra i fan di Madonna, giusto per dare un tono e uno spessore alla solita minestra riscaldata. Paolo Giordano ci vinse pure il Premio Strega, che spesso sembra essere il Premio Simpatia, e anche in questo caso ci fecero il film, con Alba Rohrwacher e Luca Marinelli, per la regia di Saverio Costanzo, forse costretto a abbandonare il cinema d'essay e i film in Arabo e Ebraico per dedicarsi, almeno per un po', alla non nobilissima ma comunque necessaria arte di racimolare qualche soldo con le commercialate nazional-popolari. Anche in questo caso, il tempo passa e, passato il santo, passata la festa: Paolo Giordano ha scritto altri due romanzi, uno di guerra e l'altro una fotocopia di quello d'esordio (amore difficile e complicato, incomunicabilità, eccetera), sono passati i tempi dei best-sellers e quei pochi che se lo ricordano si chiedono fino a quando i suoi libri verranno conservati nella memoria letteraria. Anche se non è una domanda che ruba il sonno a chissà quanti.

Arriviamo, dunque, a Paolo Cognetti e alle sue "Otto Montagne", anch'esso blasonato con lo Strega e successo di vendite. È così catastrofico, questo romanzo? Purtroppo no. Dico purtroppo perché, fosse stato veramente orribile, ci saremmo fatti tutti una bella risata e non ci avremmo pensato più. Invece, per citare le parole del mio amico squinternato, la scrittura di Cognetti ha veramente una sua dignità, le descrizione sono liriche e leggere come l'aria di montagna e le capacità narrative dell'autore non sono indubbie. Quindi, perché un autore, che comunque conosce i ferri del mestiere e l'arte della parola, si mette all'opera per raccontare una storia che è stata raccontata un milione di volte, che viene vista ogni sera nelle varie fictions di Rai Uno o Canale Cinque? Soprattutto, perché si continua a premiare questo tipo di prodotti letterari, come se dovessero dire o rivelare chissà cosa, mentre in realtà non dicono assolutamente nulla?

La storia è questa:

Ragazzo-di-città passa le estati in montagna, lontano da Milano, assieme a Mamma e Papà. Papà ama arrampicarsi sulla montagna. Mamma fa la mamma: sta lì per servire devotamente i maschi, inclusi i figli dei vicini, e come svago stringe amicizia con le altre donne del villaggio. Ragazzo-di-città fa amicizia con Ragazzo-di-montagna. Buttate qua e là, troviamo qualche espressione dialettale, giusto per vivacizzare e 'bastardizzare' l'Italiano, altrimenti manualistico, del Ragazzo-di-montagna bifolco. Si cresce e si cambia: il rapporto fra Ragazzo-di-città e Papà diventa teso, si incrina. Papà muore d'infarto. Si scopre il passato, a metà fra la soap opera e la tragedia greca, di Mamma e Papà. Ragazzo-di-città torna in montagna e ritrova il Ragazzo-di-montagna, che aveva perso di vista per qualche anno. Ma è un'amicizia che non muore mai. Poi scoppia un triangolo d'amore idiota, senza amore e senza sapore: si mette in mezzo questa tizia sbucata dal nulla, Lara, che, una volta lasciato Ragazzo-di-città, si mette assieme a Ragazzo-di-montagna. Fine del triangolo. Ragazzo-di-città viaggia per il mondo, Ragazzo-di-Montagna se ne sta sulla montagna con Lara, la figlioletta e le mucche, in ordine non necessariamente d'importanza. Riflessioni di importazione asiatiche sul valore del peregrinare e della permanenza -- si sa che l'Asia va di moda, a Katsuo Ishiguro gli hanno dato il Nobel perché l'avranno preso per Cinese, mentre quel disgraziato è Inglesissimo, e poi, Ishiguro a parte, Haruki Murakami docet, tanto, o Cina o Giappone o Nepal, l'importante è darsi all'esotico. Lara si rompe di non avere manco una lavatrice (ma i panni li faceva nel fiume gelido? non è dato di sapere), lascia in montagna il Ragazzo-di-montagna, che intanto impazzisce e vaneggia. Il Ragazzo-di-città, che nel frattempo è diventato il Ragazzo-giramondo, che non ha mai una lira in tasca ma prende aerei intercontinentali ogni due mesi, prova a fare ragionare il suo conoscente, il suo amico, suo fratello. Ma non c'è niente da fare. Alla fine, il montanaro muore, o forse no, non muore: s'è fatto tutt'uno con la montagna, il suo spirito s'è fatto roccia. Fine. Nulla di più. Non c'è nient'altro. A confronto, la Mazzantini è Dumas.

Non c'è furia animale, in questa vita di montagna descritta con piglio fanciullesco alla Edmondo De Amicis da Cognetti. Non c'è carne e non c'è sangue, ma nemmeno pietra o cristalli: solo morbida neve. Al paese, non c'è manco il matto del paese. Non c'è umorismo. Non c'è neppure sesso, cavolo! Ma l'aria di montagna non rinvigorisce? A quanto pare no. Mai una tempesta ormonale in piena adolescenza, mai una bella sega in libertà lassù fra i monti, mai una scopata in mezzo agli alberi. Manco una storia di corna o uno scandalo sessuale in paese, come se tutti fossero contenti di starsene a casa a guardare la televisione e a svegliarsi presto per mungere le mucche, quando invece, secondo me, in quei paesini lì... Giusto una scena di violenza -- cioè, una mezza scazzottata -- per far vedere che quei montanari lassú son "uomini veri". Insomma, tutta una banalità letteraria esteticamente e tematicamente asettica, patinata e politically correct, senza sbavature, senza una parola fuori posto, senza un doppio senso, senza manco un senso unico.

Insomma, sembra proprio che "Le Otto Montagne" sia stato scritto come se non si aspettasse nient'altro che la telefonata di qualche produttore che chiede i diritti per farci il film -- magari con la Rohrwacher nel ruolo di Lara, ragazza di città che abbandona tutto per realizzare il suo sogno, cioè quello di diventare una montanara morta di fame e piena di debiti, e con Marinelli nel ruolo di uno dei due protagonisti maschili, è indifferente quale dei due, tanto la profondità di questi personaggi è indirettamente proporzionale all'altezza della montagna descritta. La sceneggiatura sarebbe debolissima e poco credibile, però magari la Regione Valle d'Aosta o Trentino Alto-Adige qualche finanziamento lo mette a disposizione, e poi una reunion Rohrwacher-Marinelli su ispirazione dell'ultimo Strega è comunque un successo al botteghino assicurato a prescindere.

Un romanzo banale, insomma, ma di una banalità che fa rabbia se ci si aspetta ben altro da un autore "con la sua dignità" come Paolo Cognetti e dalla Letteratura Italiana in generale. Ma poi, questi libri vincono lo Strega e vendono centinaia di miglia di copie, sicché sono proprio i lettori italiani che non si aspettano e che forse nemmeno vogliono nulla di più...
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Mr. Vincenzo Politi
2,0 su 5 stelle Buono per farci una fiction su Rai 2
Recensito in Italia 🇮🇹 il 21 febbraio 2018
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Qualche giorno fa, un mio amico mi ha detto di aver letto le prime pagine di "Le Otto Montagne", di Paolo Cognetti. Esprimendo un giudizio sulla qualità della scrittura, il mio amico ha ammesso: "ha una sua dignità". Ho pensato a lungo alle parole di questo mio amico (che poi, "amico" è una parola grossa: diciamo che è un conoscente, anzi, una specie di conoscente, ed è pure mezzo scemo) e, in particolare, mi sono chiesto: "una scrittura con una dignità, che tipo di valore ha?". Il valore di vincere un Premio Strega e di vendere un sacco di copie, cosa che questo libro ha fatto. Né più né meno.

Ho l'impressione, infatti, che "Le Otto Montagne" appartenga a quel genere letterario, che in Italia gode di particolari, strane fortune, descrivibile come "letteratura media, anzi, medio-bassa, anzi, talmente bassa che basta fare un po' di pubblicità e di marketing per farla sembrare poetica e evocativa, quindi altissima e sublime". Una letteratura vuota, che passa per letteratura impegnata. Una letteratura di facile intrattenimento per romanticoni insonni che cercano uno sceneggiato televisivo dentro ogni libro, che passa per letteratura dei sentimenti e dell'animo umano.

Uno dei capostipiti di questo tipo di letteratura è, senza dubbio, "Va' dove ti porta il cuore", di Susanna Tamaro: tradotto in tutte le lingue del mondo, per far sì che la letteratura italiana venga denigrata e presa per i fondelli in tutto il mondo, appunto, rimase in classifica più di due o tre presidenti del consiglio in successione, tutti dicevano che era bello, bellissimo, la Comencini ci fece pure il film, con Virna Lisi e una Margherita Buy "complessa", cioè nevrastenica, sin da allora, e tutti ancora a dire "bellissimo!, bellissimo!". Gli anni però passano, così come le fortune, e pare che tutti i lettori della Tamaro, e la Tamaro stessa, siano andati là dove li aveva portati il cuore e non siano più ritornati. Chi se lo ricorda più, quel libro? Del resto, di cosa parlava? Di una mamma italiana tanta cara e tanto buona che non riusciva più a comunicare con la figlia problematica. O qualcosa del genere. Senza dubbio, qualcosa di genere.

Un esempio più recente, invece, è "La Solitudine dei Numeri Primi", classico romanzetto "young adult", con la storia d'amore scema fra due ragazzi scemi, condito da dubbi simbolismi numerologici che manco la Kabbala, che comunque va di moda, almeno fra i fan di Madonna, giusto per dare un tono e uno spessore alla solita minestra riscaldata. Paolo Giordano ci vinse pure il Premio Strega, che spesso sembra essere il Premio Simpatia, e anche in questo caso ci fecero il film, con Alba Rohrwacher e Luca Marinelli, per la regia di Saverio Costanzo, forse costretto a abbandonare il cinema d'essay e i film in Arabo e Ebraico per dedicarsi, almeno per un po', alla non nobilissima ma comunque necessaria arte di racimolare qualche soldo con le commercialate nazional-popolari. Anche in questo caso, il tempo passa e, passato il santo, passata la festa: Paolo Giordano ha scritto altri due romanzi, uno di guerra e l'altro una fotocopia di quello d'esordio (amore difficile e complicato, incomunicabilità, eccetera), sono passati i tempi dei best-sellers e quei pochi che se lo ricordano si chiedono fino a quando i suoi libri verranno conservati nella memoria letteraria. Anche se non è una domanda che ruba il sonno a chissà quanti.

Arriviamo, dunque, a Paolo Cognetti e alle sue "Otto Montagne", anch'esso blasonato con lo Strega e successo di vendite. È così catastrofico, questo romanzo? Purtroppo no. Dico purtroppo perché, fosse stato veramente orribile, ci saremmo fatti tutti una bella risata e non ci avremmo pensato più. Invece, per citare le parole del mio amico squinternato, la scrittura di Cognetti ha veramente una sua dignità, le descrizione sono liriche e leggere come l'aria di montagna e le capacità narrative dell'autore non sono indubbie. Quindi, perché un autore, che comunque conosce i ferri del mestiere e l'arte della parola, si mette all'opera per raccontare una storia che è stata raccontata un milione di volte, che viene vista ogni sera nelle varie fictions di Rai Uno o Canale Cinque? Soprattutto, perché si continua a premiare questo tipo di prodotti letterari, come se dovessero dire o rivelare chissà cosa, mentre in realtà non dicono assolutamente nulla?

La storia è questa:

Ragazzo-di-città passa le estati in montagna, lontano da Milano, assieme a Mamma e Papà. Papà ama arrampicarsi sulla montagna. Mamma fa la mamma: sta lì per servire devotamente i maschi, inclusi i figli dei vicini, e come svago stringe amicizia con le altre donne del villaggio. Ragazzo-di-città fa amicizia con Ragazzo-di-montagna. Buttate qua e là, troviamo qualche espressione dialettale, giusto per vivacizzare e 'bastardizzare' l'Italiano, altrimenti manualistico, del Ragazzo-di-montagna bifolco. Si cresce e si cambia: il rapporto fra Ragazzo-di-città e Papà diventa teso, si incrina. Papà muore d'infarto. Si scopre il passato, a metà fra la soap opera e la tragedia greca, di Mamma e Papà. Ragazzo-di-città torna in montagna e ritrova il Ragazzo-di-montagna, che aveva perso di vista per qualche anno. Ma è un'amicizia che non muore mai. Poi scoppia un triangolo d'amore idiota, senza amore e senza sapore: si mette in mezzo questa tizia sbucata dal nulla, Lara, che, una volta lasciato Ragazzo-di-città, si mette assieme a Ragazzo-di-montagna. Fine del triangolo. Ragazzo-di-città viaggia per il mondo, Ragazzo-di-Montagna se ne sta sulla montagna con Lara, la figlioletta e le mucche, in ordine non necessariamente d'importanza. Riflessioni di importazione asiatiche sul valore del peregrinare e della permanenza -- si sa che l'Asia va di moda, a Katsuo Ishiguro gli hanno dato il Nobel perché l'avranno preso per Cinese, mentre quel disgraziato è Inglesissimo, e poi, Ishiguro a parte, Haruki Murakami docet, tanto, o Cina o Giappone o Nepal, l'importante è darsi all'esotico. Lara si rompe di non avere manco una lavatrice (ma i panni li faceva nel fiume gelido? non è dato di sapere), lascia in montagna il Ragazzo-di-montagna, che intanto impazzisce e vaneggia. Il Ragazzo-di-città, che nel frattempo è diventato il Ragazzo-giramondo, che non ha mai una lira in tasca ma prende aerei intercontinentali ogni due mesi, prova a fare ragionare il suo conoscente, il suo amico, suo fratello. Ma non c'è niente da fare. Alla fine, il montanaro muore, o forse no, non muore: s'è fatto tutt'uno con la montagna, il suo spirito s'è fatto roccia. Fine. Nulla di più. Non c'è nient'altro. A confronto, la Mazzantini è Dumas.

Non c'è furia animale, in questa vita di montagna descritta con piglio fanciullesco alla Edmondo De Amicis da Cognetti. Non c'è carne e non c'è sangue, ma nemmeno pietra o cristalli: solo morbida neve. Al paese, non c'è manco il matto del paese. Non c'è umorismo. Non c'è neppure sesso, cavolo! Ma l'aria di montagna non rinvigorisce? A quanto pare no. Mai una tempesta ormonale in piena adolescenza, mai una bella sega in libertà lassù fra i monti, mai una scopata in mezzo agli alberi. Manco una storia di corna o uno scandalo sessuale in paese, come se tutti fossero contenti di starsene a casa a guardare la televisione e a svegliarsi presto per mungere le mucche, quando invece, secondo me, in quei paesini lì... Giusto una scena di violenza -- cioè, una mezza scazzottata -- per far vedere che quei montanari lassú son "uomini veri". Insomma, tutta una banalità letteraria esteticamente e tematicamente asettica, patinata e politically correct, senza sbavature, senza una parola fuori posto, senza un doppio senso, senza manco un senso unico.

Insomma, sembra proprio che "Le Otto Montagne" sia stato scritto come se non si aspettasse nient'altro che la telefonata di qualche produttore che chiede i diritti per farci il film -- magari con la Rohrwacher nel ruolo di Lara, ragazza di città che abbandona tutto per realizzare il suo sogno, cioè quello di diventare una montanara morta di fame e piena di debiti, e con Marinelli nel ruolo di uno dei due protagonisti maschili, è indifferente quale dei due, tanto la profondità di questi personaggi è indirettamente proporzionale all'altezza della montagna descritta. La sceneggiatura sarebbe debolissima e poco credibile, però magari la Regione Valle d'Aosta o Trentino Alto-Adige qualche finanziamento lo mette a disposizione, e poi una reunion Rohrwacher-Marinelli su ispirazione dell'ultimo Strega è comunque un successo al botteghino assicurato a prescindere.

Un romanzo banale, insomma, ma di una banalità che fa rabbia se ci si aspetta ben altro da un autore "con la sua dignità" come Paolo Cognetti e dalla Letteratura Italiana in generale. Ma poi, questi libri vincono lo Strega e vendono centinaia di miglia di copie, sicché sono proprio i lettori italiani che non si aspettano e che forse nemmeno vogliono nulla di più...
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Simona Scarioni
5,0 su 5 stelle Le otto montagne (di Cognetti)
Recensito in Italia 🇮🇹 il 18 luglio 2017
Acquisto verificato
Le otto montagne, credo sia stato uno dei libri più discussi di quest’anno – e non solo perchè Paolo Cognetti ha vinto il Premio Strega 2017. L’ho letto a maggio, questo libro, e mi ha lasciato nell’anima una sensazione strana, contesa tra emozioni opposte. Ho preferito procrastinare una recensione su questo libro proprio per questo, anziché darne un giudizio imparziale e istintivo – ho preferito sorvolare anche sull’onda dell’entusiasmo della vittoria dello Strega. Ma ieri sono andata in montagna, sulle mie montagne, e credo sia venuto il momento di dirvi cosa ne penso – non che abbia una qualche rilevanza, si intende.

Il problema di fondo è che non esistono le montagne. O perlomeno: non esiste una definizione unica di montagna. Le montagne sono luoghi di vita o di vacanza, luoghi indifferenti o luoghi che ci restano nel cuore – ma c’è ben poco di razionale in tutto questo. Non esistono le montagne, perché ognuno di noi ha il suo modo di vivere le montagne – un modo unico che difficilmente può essere confinato in una frase, un modo che spesso è complicato condividere anche con le persone che ci sono già vicine.

E giustamente, Cognetti in questo libro parla delle sue montagne, del suo modo di vivere la montagna – e forse in sottofondo ci sembra di sentire una vocina che dice “Vabbè, ma voi che non l’avete vissuta così, cosa ne potete capire?”. Cognetti racconta di un mondo di montagne deserte e di anime solitarie, inerpicato alle pendici del Monte Rosa. Cognetti parla di un’amicizia che dura trent’anni, di una famiglia che si allarga e si spezza mantenendo sempre il legame indissolubile con la montagna. Cognetti ci parla di estate, di mucche, di neve e di baite, e in fondo al cuore ci piacerebbe prendere una macchina e raggiungerlo lì, nei dintorni di Grana, a rincorrere due ragazzini che giocano lungo un torrente.

Ma la montagna, dicevo, è una esperienza personale – e arrivo in fondo al libro pensando che io ho perso tutto il mondo di Cognetti, ma lui ha perso tutto il mio. Perché, in fondo, in quelle montagne solitarie io non mi ci ritrovo: per me la montagna è un mondo di persone, una comunità forte e unita tanto d’estate quanto d’inverno – ed è natura, sì, ma è natura addomesticata e resa accessibile a tutti, un continuum di verdi e azzurri che non viene inframezzato dalle costruzioni delle città. Le mie montagne sono vive, sono un brulicare di gente allegra, sono piene di attività volte a valorizzare il territorio e a far spendere ai turisti quei soldi che sono indispensabili per mandare avanti la baracca e superare l’inverno. Perché la montagna da sola non sta in piedi: serve il turismo, serve l’attività, servono soldi per consentire alla gente di vivere, e di arrivare alla prossima estate. Le montagne, abbandonate a loro stesse, diventano uno spettacolo impervio e inospitale – e l’uomo ne fugge, l’uomo scende in pianura quando non riesce a vivere sulle montagne. E per questo io, abituata a amare quelle montagne probabilmente molto turistiche ma sicuramente vissute e valorizzate, io in questo racconto non mi ci ritrovo.

Dall’altro lato, però, in Cognetti troviamo personaggi descritti con la stessa ruvidezza delle montagne, con se fossero scolpiti in un ghiacciaio e ne emergessero i tratti poco per volta, man mano che la neve si scioglie. In Cognetti troviamo uomini senza padre e padri che non sono mai stati figli; e troviamo figli che fuggono, e che poi si ritrovano sulle orme dei padri. E le donne, sì: le donne funzionano da collante, limano gli spigoli e ammorbidiscono questi uomini ruvidi – sempre per scelta però, mai per sottomissione, e mai sentendosi chiuse in gabbia. In tutto il libro scorre una vena di libertà: nessuno è davvero ingabbiato tra quelle montagne, e chi ci resta lo fa per scelta, lo fa perché isolarsi sulle montagne è il suo modo per cercare la libertà.

Splendida la narrazione, dunque, splendidi i personaggi e lo stile – anche se non parla del mio mondo, anche se queste non sono le mie montagne. Ma andando oltre il racconto in sé, tramite la splendida scrittura di Cognetti possiamo trovare nuove domande, possiamo chiederci se il sentiero tracciato sia quello giusto, e possiamo scegliere quale sia la nostra prossima montagna da scalare. Perché non serve avere un paio di scarponi ai piedi: la montagna è una filosofia di vita, è l’idea che serva fatica per arrivare in cima, ma che poi ne valga la pena.

"Da mio padre avevo imparato, molto tempo dopo avere smesso di seguirlo sui sentieri, che in certe vite esistono montagne a cui non è possibile tornare. Che nelle vite come la mia e la sua non si può tornare alla montagna che sta al centro di tutte le altre, e all’inizio della propria storia. E che non resta che vagare per le otto montagne per chi, come noi, sulla prima e più alta ha perso un amico."
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Daniela
4,0 su 5 stelle Montagna e vita, quale destino?
Recensito in Italia 🇮🇹 il 12 novembre 2016
Acquisto verificato
Questo bellissimo romanzo nasce e si nutre del sapore e dei gusti della montagna in un percorso spazio-temporale tra vite da essa segnate e anime altrove perdute.
Al centro il protagonista e voce narrante, Pietro, e quella vita indirizzata, sin dalla infanzia, da relazioni famigliari interrotte e dal legame con Bruno, suo coetaneo, una amicizia trentennale inizialmente quasi obbligata.
Una apparente indifferenza si farà legame profondo, inseguendo una traccia e la propria memoria, sfuggendo ad una certa definizione, lasciandosi per ritrovarsi, in quello stesso luogo, tra un nugolo di domande, presenze-assenze, perdite dolorose, desiderio di riconciliazione con un passato ingombrante.
Pietro, sin dai primi anni, ha fatto della montagna il proprio nutrimento, spinto da un padre emotivo, autoritario, indifferente, che si incamminava per sentieri tortuosi cercando disperatamente di raggiungere ogni vetta, anche lontana, per ripartire all' istante, cittadino insoddisfatto in fuga dai rumori molesti e dalle ingiustizie di una metropoli crudele ed indifferente ( Milano ).
Al contrario una madre forte, tranquilla, conservatrice, che amava sostare lungamente in un posto, e prendersene cura, coltivandolo della propria quotidianita'.
Ha inseguito le impronte di una vita così diversa da quella di Bruno, montanaro di nascita, con una famiglia poco attenta, assente, in altro affaccendata ed un destino segnato, " adottato " sentimentalmente dai genitori di Pietro.
Il tempo ed il destino ha consegnato ai due amici un lembo di terra sul quale costruire un rifugio che diverrà la loro " casa ", dimora dell' animo dove tornare e riallacciare un rapporto controverso, mai pienamente vissuto, silenzi oscuri e protratti, riannodando i fili di un passato troppo in fretta cambiato, improvvisamente interrotto, scavando nei propri ricordi ed in desideri insondabili, in un presente difficile e tortuoso ed in un futuro ancora indecifrabile.
Pietro sa che Il proprio destino abita tra le montagne, ha imparato ( dal padre ) che il passato è a valle, il futuro a monte. Spesso e' più facile osservare la natura che se stessi, e per fare i conti con il proprio vissuto non resta che allontanarsene ( inizierà così lunghi viaggi himalayani ).
Ma quando si parte gli altri continuano a vivere e si finisce con il trovare il proprio posto nel mondo in modi meno imprevedibili di quello che si credeva.
Il luogo della conservazione della memoria si lega ad affetti, rumori, silenzi, odori, ed in questo la montagna è speciale. Li' tutto sembra fermarsi, ci si riappropria di se', si vive seguendo un ciclo naturale che alterna luce e oscurità , i colori cangianti della primavera ed il bianco uniforme dell' inverno, mentre i ghiacciai, la' in alto, conservano la memoria del tempo.
La montagna non è solo natura selvaggia, prati, boschi, fiori, torrenti, neve, è anche silenzio, riflessione, consapevolezza e segna il percorso di una vita, diviene somma esperienza di vita.
È il luogo dove Bruno vorrà restare per sempre, dove inizia e finisce il suo mondo, e quello che sa fare, altrove non si riconosce, ed è inutile cercare di cambiarlo.
Pietro lo ha conosciuto meglio di tutti, o forse no, e viceversa, di certo i due hanno condiviso una importante parte di se'.
Da queste montagne ha continuato a partire per ritornarvi ogni volta, senza fissa dimora, ne' relazioni durature, riconciliandosi con la memoria del padre, che comincia a conoscere solo da adulto e scopre che la propria essenza e stabilità risiede nel senso della montagna, in quella esplorazione continua spinto dalla sola curiosità, libero di avventurarsi, senza una meta precisa.
Vi sono vette, infatti, sulle quali non si può più tornare, laddove si è persa una importante parte di se'. E la conservazione della memoria, attraverso un rituale ripetuto, nel significato, ma ogni volta diverso, nel gesto compiuto, ravviva il senso di appartenenza alla vita e ad affetti improvvisamente negati.
Paolo Cognetti ci consegna un romanzo denso, lirico, potente, una visione estetica e vivida all' interno della vita di un ragazzo prima e di un uomo poi ( con forti connotazioni autobiografiche ), un' amicizia per sempre, un modus vivendi segnato dalla continuità di forme e rituali consegnati e conservati nella saggezza secolare della montagna e nei suoi segreti più intimi.
È una lettura da assaporare lentamente, come salendo su un sentiero ripido e tortuoso, sostando di tanto in tanto a gustare il rumore del silenzio, respirando a pieni polmoni, scrutando l' orizzonte ed ascoltando i battiti, più o meno accelerati, del proprio cuore.
Buona lettura.
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Cliente Amazon
5,0 su 5 stelle Piacevole
Recensito in Italia 🇮🇹 il 13 marzo 2023
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Un libro piacevole, scorrevole , che ti immerge
nelle montagne con grande intensità.. una bella amicizia che va oltre ogni difficoltà.. un finale che non mi aspettavo. Ben fatto !!
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Fabio
4,0 su 5 stelle Bel libro
Recensito in Italia 🇮🇹 il 18 febbraio 2023
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Ho acquistato questo libro in formato ebook,
come trama, molto bello, soprattutto dopo aver visto il film
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Mattia
4,0 su 5 stelle Un bel libro!
Recensito in Italia 🇮🇹 il 17 febbraio 2023
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Premetto che non l ho ancora finito , ma devo dire che mi sta piacendo molto il libro.
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Cliente Kindle
4,0 su 5 stelle Sogni montanari
Recensito in Italia 🇮🇹 il 10 febbraio 2023
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Il libro ha la capacità di farti sentire sulla tua pelle la bellezza della montagna ma anche le sue indiscusse regole .
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Cliente Amazon
5,0 su 5 stelle Bellissimo, rilassante, coinvolgente
Recensito in Italia 🇮🇹 il 9 marzo 2023
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Il libro è molto dritto, non ci sono grandi curvature nella storia, proprio per questo l’ho trovato morbido, leggero ma anche profondamente coinvolgente.
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Cliente Amazon
5,0 su 5 stelle Bellissimo libro!
Recensito in Italia 🇮🇹 il 22 febbraio 2023
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Bellissimo libro scritto in maniera semplice ma efficace. Una lettura che, per chi ha frequentato allo stesso modo dell'autore, la montagna in questi termini, farà rivivere e riassaporare le immagini e i ricordi della propria infanzia rileggendoli e rivalutandoli sotto un'altra luce.
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Marco Vitariello
5,0 su 5 stelle Bellissimo!!!
Recensito in Italia 🇮🇹 il 16 marzo 2023
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Bello, coinvolgente e commovente. Dolce/amaro. Letto dopo aver visto il film, entrambi capolavori.
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